I motori su di giri, i meccanici che abbandonano la pista, gli ultimi momenti di tensione, le visiere calate, la bandiera verde sventolata da un commissario di pista, poi il semaforo: in sequenza, rosso, verde e una nuvola di fumo seguita da un crepitio assordante dei motori che squarcia l’aria,  poi, via liberi di correre, veloci verso l’orizzonte, percorrendo infinite traiettorie sull’asfalto, sfidando la gravità, cercando i limiti umani, quelli meccanici, e, oltre.

Questa sembrerebbe una normale partenza di una qualsiasi gara motoristica, ma quella che vorrei raccontare è l’esperienza personale che ho vissuto il 1° maggio 1994, in occasione del 14° Gran Premio della Repubblica di San Marino disputato sul circuito Enzo e Dino Ferrari a Imola.

Quel 1° maggio raggiunsi la pista con mio fratello Luigi, non particolarmente appassionato di Formula Uno, ma il fatto di stare insieme tutta una giornata ci rendeva felici, ed io non potevo desiderare accompagnatore migliore.

Raggiungemmo il circuito alla buon’ora e superato il controllo biglietti entrammo all’interno dell’autodromo dove iniziò una giornata che si sarebbe rivelata tragica, quasi fotocopia del sabato precedente dove un giovane pilota austriaco, Roland Ratzenbergher, nell’affrontare la curva Villeneuve, dopo aver perso il controllo della vettura, andò a sbattere contro le protezioni a bordo pista, decedendo sul colpo.

Non avremmo mai immaginato di vivere un’altra giornata così drammatica, come quella del sabato e  di vedere gli ultimi giri del  Campione dallo  sguardo malinconico, grande perfezionista, una  classe innata,  estremamente elegante nei modi, che da li a poco ci avrebbe lasciati in maniera così cruenta,  amplificata dalle immagini in diretta, trasmesse via etere in tutto il mondo, che mostravano la lenta agonia di quello che è stato considerato il più Grande Pilota di formula uno, Ayrton Senna.

Quel capo reclinato, immobile,  dove il personale medico e paramedico coordinato dal Dottor Watkins e i Commissari di Pista presenti sul posto, dopo aver adottato tutte le procedure previste, riuscivano ad estrarre il pilota dall’abitacolo, adagiandolo a bordo pista, cercando di rianimare il corpo che stava lottando contro la morte, professionisti capaci pur trovandosi di fronte ad uno spettacolo raccapricciante. Dopo aver tagliato il cinturino di bloccaggio, sfilarono il casco, poi tagliata la tuta, per evitare di muovere eccessivamente il corpo,  effettuavano una tracheotomia permettendogli la ventilazione polmonare e successivamente  caricandolo su quell’elicottero sceso sulla pista, per  poi volare all’Ospedale Maggiore di Bologna.

Ma la mia mente ritorna all’ingresso del circuito, dove potemmo vedere e respirare il clima di quella giornata, molto tesa per la tragica morte di Roland, ma nello stesso tempo così desiderata da tutti gli appassionati, elettrizzati per un’evento motoristico così importante, specialmente per il popolo ferrarista, quel popolo che cerava un’affermazione sulla pista di casa. Atmosfera  palesemente velata da una tristezza e contenuta negli entusiasmi  poichè tutti consapevoli del dramma vissuto il sabato precedente.

Decidemmo, di vedere la gara da una posizione particolarmente “comoda” scegliendo la zona delle Acque Minerali, poichè la tribuna era ombreggiata. Di fianco ai nostri posti,  ricordo dei tifosi  che provenivano da Padova e Milano. Questi ultimi avevano un piccolo televisore a pile per cui oltre a vedere sfrecciare le auto sul nastro stradale, potevamo, ascoltare, tra il passaggio di un bolide e l’altro, le voci di Mario Poltronieri, Ezio Zermiani e Gianfranco Palazzoli, triade di giornalisti sportivi RAI TV che si alternavano nei commenti.

Alle 14,00 scatta il gran premio, tutto il circuito è in trepidazione, urla inneggianti alla Ferrari e tutti in piedi per vedere il passaggio del primo giro, dove ad aprire il gruppo apparve già da subito la sagoma della Williams numero due di Ayrton, così, come per altri cinque giri. Rettifilo davanti ai box, curva del Tamburello, curva  Villeneuve, curva della Tosa, Curva della Piratella, curva Acque Minerali, variante Alta, curva della Rivazza, variante Bassa, rettifilo di accelerazione, e, inizio del settimo giro, curva del Tamburello, ……..ore 14,17……….poi, il buio.

Pochi istanti dopo, vedemmo transitare le vetture lentamente, in fila indiana e i commissari di pista sventolare le bandiere rosse, che indicano la sospensione della competizione per un grave motivo, poi un silenzio quasi surreale. Rammento la domanda che tutti ci ponevamo: cosa è successo?

Da li a poco si seppe che vi era stato un incidente molto grave, in un imprecisato settore del circuito e che bisognava aspettare la ripartenza appena il personale di pista avrebbe finito di rimuovere i detriti presenti sull’asfalto.

Ma quel piccolo televisore portatile, man mano che passavano i minuti, faceva intravedere quello che non avremmo mai voluto vivere.

Non vi erano solo detriti o auto da spostare, qui era una lotta contro il tempo per cercare di salvare una Vita umana,  prestare soccorso a un ragazzo che aveva appena impattato contro un muro di protezione a 310 chilometri orari, velocità sensibilmente rallentata dall’istinto del Campione, dove con un’ultima disperata manovra, tentò di frenare il più possibile, cercando di correggere la traiettoria, fuori di circa 22 gradi rispetto a quella ideale, che sarebbe servita per affrontare la curva in totale sicurezza, senza riuscirvi.

Perchè? Un’errore? Un guasto? Ma che importanza aveva. Bisognava correre, correre, correre forte per portare Ayrton all’ospedale Maggiore, per salvare la Sua la Vita.

Furono momenti tremendi, incollati a quel piccolo schermo, le cui immagini ci sconvolsero tanto da decidere di abbandonare il circuito, avendo pienamente compreso il dramma che si era appena consumato.

Poi tutto il resto è storia,  la Dottoressa Maria Teresa Fiandri, Primario del Reparto di Rianimazione dell’Ospedale Maggiore di Bologna, alle ore 18,40, comunicò il decesso per le gravissime lesioni riportate.

Così,  finisce la Vita terrena di Ayrton Senna, quel lontano 1° maggio di trenta anni orsono, sulle rive del fiume Santerno, a ridosso di una curva, dove gli alberi che costeggiano la riva del fiume  creavano un’ombra ristoratrice e il tracciato d’asfalto che disegna la pista,  è immerso all’interno di un bellissimo parco, che pare contrasti con la natura, ma nel contesto tutto viene armonizzato dalle piante che creano una fitta vegetazione, alternando prati, da cui si erigono le dolci colline. E’ quì, in questo luogo così suggestivo, quasi pittoresco, che ci stava lasciando la Grande Anima di Senna.

Aver visto gli ultimi sei giri, poichè il settimo è stato estremamente breve, durato solo poche centinaia di metri dal traguardo, sono fotogrammi indelebili impressi nella mia  memoria  e quest’evento così tremendo, associato alla morte di Roland, solo  a distanza di poche ore, assume ancora di più l’enormità della tragedia.

Di questa triste vicenda, un particolare  mi colpì profondamente, dopo il dissequestro degli effetti personali da parte della magistratura, tra cui il casco e la tuta indossati in quella circostanza, alla Famiglia non furono mai restituiti i guanti che il Campione indossava nel momento in cui ebbe l’incidente. La Famiglia fece  accorati appelli per tornarne in possesso, senza esito.

Quei guanti, sapientemente progettati  per la protezione in caso di incendio, oltre a garantire una maggiore aderenza al volante e  proteggere la pelle da eventuali formazioni di vesciche, forse rappresentavano qualcosa di più rispetto ad un oggetto da collezione. E’ mio pensiero che quel manufatto rappresentava una parte di Lui. Quei guanti avevano protetto le mani nella Sua ultima corsa, quelle mani che provarono disperatamente a sterzare la vettura impazzita prima dell’impatto, quelle mani che hanno saputo disegnare traiettorie rimaste leggendarie, preziose come tele d’autore,  quelle mani che  hanno permesso di affrontare duelli epici, quelle mani che hanno tramesso emozioni, quelle mani che hanno stretto altre mani, quelle mani che hanno costruito tante attività ancor oggi esistenti in favore dei meno fortunati, quelle mani che hanno dato Vita alla Fondazione Ayrton Senna, che opera ed aiuta bambini in Brasile, quelle mani che hanno contribuito alla grandezza del Mito, quelle mani che hanno toccato il cielo ad ogni Sua Vittoria, sempre dedicate a Dio, da Lui tanto amato e con cui aveva un rapporto speciale.

Forse, per i propri Cari, oltre a tutto ciò, quei guanti, rappresentavano un altro valore, forse più intimo, forse  più profondo, avevano protetto le mani con cui accarezzò i loro volti, avevano protetto le mani che sfiorarono le loro cose, avevano protetto le mani che toccarono i loro sentimenti, avevano protetto le mani che strinsero i loro corpi, avevano protetto le mani che riempirono le loro Vite.

Sentimenti così differenti da quelle mani arroganti che si erano appropriate indebitamente di un bene non proprio, quelle mani che non hanno esitato ad approfittare di una situazione così tragica per depredare, quelle mani che non sono arretrate neppure  dinnanzi al sangue che aveva intriso l’asfalto, quelle mani non arretrate neppure  dinnanzi a quel sangue che gettò nella disperazione tutto l’intero Popolo Brasiliano, che ad ogni  vittoria  dimenticava  i  problemi sociali, e, quelle mani non arretrate neppure  dinnanzi ai milioni di tifosi sparsi in tutto il pianeta.

Se solo avesse avuto la possibilità di sterzare, se solo ci fosse riuscito, se quel cedimento non si fosse verificato, il corso della storia,  sarebbe stato ugualmente pieno di lacrime. Lacrime per quel giovane ragazzo austriaco diventato angelo troppo in fretta.

Ayrton voleva vincere, doveva vincere, vincere per Lui, vincere per quel pilota che non ha potuto realizzare il Suo sogno di diventare Campione.

All’interno della scocca della vettura semidistrutta, immobile a bordo pista, venne rinvenuta una bandiera austriaca piegata e riposta sul fondo, adagiata tra la pedaliera ed il sedile, quella bandiera che doveva servire, dopo la vittoria, per effettuare il giro d’onore, da liberare nell’aria facendola sventolare,  alzandola verso il cielo, una vittoria per Roland, una vittoria per ringraziare ancora una volta Dio.

Ayrton  sapeva, quello che Roland avrebbe provato, erano coetanei, avevano condiviso le stesse ansie, gli stessi timori, per ovvi motivi non le stesse emozioni, ma erano entrambi accomunati  dall’immensa  passione, che per una fatalità, a noi incomprensibile, ma nota a Dio,  uniti per sempre allo stesso destino.

Ciao Roland, pilota sfortunato e dallo sguardo sincero.

Ciao Ayrton tre volte campione del mondo, campione del mondo per sempre.

Oi Ayrton, tricampeão mundial, para sempre campeão mundial.

Così, fu quel giorno visto con i miei occhi e così che lo voglio ricordare.

(in ricordo di Roland e Ayrton, io testimone della nascita di due Stelle)